LE MANI E IL SASSO
La tradizione degli scalpellini sammarinesi
Di Maria Lea Pedini
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….A tale scopo, nel 1948, fu allestita nelle sale del Palazzo Valloni la I Mostra dell’artigianato e dell’industria sammarinese, cui parteciparono la “Cooperativa degli Scalpellini” con “un artistico camino lavorato con accuratezza e perizia” e gli scalpellini Romeo Balsimelli e Aldo Volpini, che esposero interessanti altorilievi in pietra (“Il Nuovo Titano”, 18 luglio 1948)……
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….Lavoratore tenace, il Balsimelli continuò a insegnare ai suoi molteplici allievi, la modestia e la fedeltà nella riproduzione dei disegni originali, nella pietra, che lavorava in maniera accuratissima con strumenti da lui stesso forgiati e che lasciò al suo migliore allievo, Aldo Volpini: quest’ultimo si installò anche nella sua piccola capanna attaccata alla roccia, nella Cava della Fratta ed ora demolita, su cui incise volti e mascheroni in rilievo, tuttora visibili. Tanto era l’attaccamento alla sua cava che preparò con un sasso di quella roccia la sua stessa sepoltura, ora al cimitero di Montalbo…….
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…Aldo Volpini è stato sicuramente l’ultimo grande lapicida della tradizione sammarinese. Entrò nella cava di Luigi Reffi, passata al figlio Gaetano, ancora bambino, nel 1934, e suo padre raccomandò al più vecchio degli scalpellini, chiamato “Sarafa”, di accoglierlo bene e insegnargli con pazienza il mestiere. L’apprendistato, ricordava Volpini, era una fase difficile e pesante nella vita dello scalpellino: poteva durare anche quattro o cinque anni perché i “maestri” più anziani erano molto esigenti e intolleranti rispetto agli errori dei giovani. Quando infine gli apprendisti imparavano l’arte, spesso nascevano invidie e rivalità di mestiere: fatto abbastanza ricorrente sia all’interno di una stessa cava, che fra le due cave vicine (quella privata e quella della cooperativa). Questa spontanea competizione non intaccava affatto la solidarietà e la stima reciproche ma generava accese discussioni durante l’esecuzione dei lavori. Ad esempio, Romeo Balsimelli (che gestì, dopo di lui, la cava di Gaetano Reffi) rimproverava al Volpini, subito emergente come il migliore degli “allievi”, la sua originalità creativa che facilmente assecondava il gusto per l’invenzione mentre, a detta del “maestro”, avrebbe dovuto essere meno “presuntuoso” e limitarsi a eseguire i progetti altrui…..
…..Nel 1934, quando Volpini, futuro modello di lapicida, cominciò il mestiere, nelle due cave c’erano 60-70 uomini che lavoravano all’aperto, tenendo i loro ferri in una capanna. La sua figura artistica si può veramente definire completa: non si applicò, infatti, alla sola lavorazione della pietra ma, sempre da autodidatta, apprese la tecnica della modellazione (osservando il decoratore Giris al lavoro nel Teatro Titano), e i rudimenti nel disegno dal pittore sammarinese Torquato Mariotti. Il desiderio di completare e perfezionare i suoi risultati lo induceva a osservare, studiare, imitare, le opere dei grandi artisti rinascimentali, per rendere sicura la propria linea, ed espressivo il segno. Si è già visto come si distinse alla prima Mostra dell’Artigianato del 1948: nello stesso anno compose un grifo in rilievo su un fondo in pietra martellata.
La difficoltà dell’esecuzione indica già una mano sicura nelle curve morbide ed eleganti, nel gusto della decorazione, ricca ma non pesante. E’ questa una delle prime opere in cui l’”artista” esprimeva il suo originale stile: in precedenza, infatti, lavorando con gli altri lapicidi al Teatro Titano, alle Cripte di San Pietro e di Sant’Agata, a Palazzo Valloni, aveva eseguito stemmi della Repubblica in linea con le forme più tradizionali. Nel 1951, ammalatosi il Balsimelli, terminò i due stemmi da lui iniziati, collocati sul Ponte di Dogana: già in precedenza aveva realizzato il gesso dell’aquila, che il Balsimelli tradusse poi in pietra su Palazzo dell’ INFAIL.
Negli anni fra il 1950-60 realizzò la sua produzione maggiore.
D’estate, come gli altri ex-scalpellini, faceva il commerciante, ma negli altri mesi, chiuso nel capanno, nel parcheggio deserto, componeva autentici capolavori. Nel 1951 eseguì uno stemma (dono del Governo per il III Congresso internazionale di difesa sociale, tenuto a San Marino) a cui seguirono altri stemmi nel 1953, per la tomba di dante, nel 1954 per il “Social Club San Marino” di Detroit e per la Porta della Fratta, nel 1955 per il Museo delle armi Antiche, e nel 1959, per la Funivia di San Marino. Resosi noto fra la popolazione per l’esecuzione di questi stemmi, ne preparò ancora: due per Valgiurata, nel 1960; per le Famiglie Gozi e Arcangeli, nel 1961; per la famiglia Belluzzi nel 1963. Ma le sue opere più belle le teneva custodite in casa: per lui, il lavoro in pietra, come tutte le altre attività artistiche, era un fatto vitale. Doveva appagare l’eterno stimolo a creare, a dare forma all’ “inesprimibile”.
Fra i quadri, disegni, gessi e sculture in pietra, su un pianerottolo giganteggiava il gesso del San Marino, realizzato nel 1958 per un angolo della funivia di San Marino – Borgo Maggiore, nella zona del “Cantone”. Il tema del Santo lapicida fu, infatti, sempre caro anche al Volpini. Il Santo appare saldamente poggiato su un basamento di roccia, i muscoli delle braccia contratti nello stringere gli attrezzi del mestiere, la figura solenne, grave di dignità, coperta da un rozzo abito da lavoratore. Nello sguardo fisso al cielo, nel viso scavato da vecchio severo, nel realismo della gola, ove sembra di vedere palpitare la vita, si esprimono una forza morale, una concezione nobile e sacra del lavoro, che splendono dall’interno stesso della figura ritratta. Con questo suo San Marino, Volpini fu l’unico degli scalpellini sammarinesi a comporre una figura a tutto tondo nella pietra locale: quella più bianca, diceva, è tenera e adatta a bassorilievi e sculture. Altre figure a tutto tondo del Volpini: un “Cristo” del 1961, a Fiorentino; un “San Marino” per la “Fratellanza sammarinese” di Detroit, del 1961; un “San Marino” “donato dal Paese in occasione dell’Esposizione Universale di Bruxelles, per la Fiera Internazionale e un altro “San Marino” del 1962 per Rovereto. Queste sculture furono collegate al San Marino del “Cantone”: il suo capolavoro che gli costò una lunga e meditata preparazione. Nel 1962 eseguì il bassorilievo La Costruzione del Tempio, sotto l’arco che collega la Cassa di Risparmio a via Omerelli. Ancora una volta scelse il tema del Santo Lapicida, circondato dai simboli della sua tradizione: l’orso di un suo miracolo, gli scalpellini, la Pieve. In questo lavoro più legato alla tradizionale rappresentazione di San Marino, si evidenziano alcuni punti in cui si addensa una forza “sotterranea” a stento trattenuta, come nelle mani e nelle braccia del Santo, che restano però momenti isolati nella generale composizione in cui, accanto a un diluito pittoricismo, come nella trattazione dell’orso, del paesaggio, delle frasche, appare un modo più rude ed asciutto di rendere la forma.
Dalle stesse spiegazioni del Volpini e del Capicchioni si ricostruiscono anche le modalità di lavoro della pietra. Per estrarre la pietra dal monte, i cavatori praticavano scavi attorno alla parte del masso designata, picchiando sulla roccia con piccone (a due punte) o con mazzette, strumenti più leggeri a cui si potevano applicare fino 20-30 punte differenti. Le scanalature, dette in dialetto “i cannèl” …..Diceva Aldo Volpini “La pietra si vede tutta dalla fuga della stuccatura”. Gli attrezzi per la lavorazione della pietra erano: la squadra, il metro, la subbia, cioè la punta per “spunticchiare” la pietra, lo scalpello, il mazzuolo, che anticamente era tutto in ferro (poi gli emigrati tornati dalla Francia introdussero quello con il manico in legno) la martella e la “bugiarda”, che era un blocco di ferro che poteva avere 25 denti, o 36, o 60, o 80 o 100, con i quali si batteva la pietra per ottenere risultati diversi.